Dead Skyline

GLI APPUNTI DEL DOTTOR SALAZAAR | settembre 8, 2021

MALAVENA EDIZIONI

“The bats have left the bell tower
The victims have been bled
Red velvet lines the black box”

Bela Lugosi’s dead

Allungo del  Gin Fizz  on the rocks con una Monster energy che  mi scende giù nel duodeno ulcerato come acquaragia.

La ragazza al tavolo di fianco pasteggia tra le labbra un Pedroni all’anice che sbuffa in cumulo nembi aromatici ciccando con mioclonie a scatto, ad ogni boccata.

Sembra profumare di fresco:  Acqua di Giò.

Da quando sono tornato riconosco a distanza gli odori delle persone e delle cose, e riesco a dividerli tra chi profuma, chi è neutro, chi tanfa. Sono una cartina di tornasole con un olfatto felino.

Le foglie gialle venate di rosso sanguinaccio svolazzano tra i tavolini, gli alberi sono nudi ed anoressici,  credo sia autunno anche se ne sono passati tanti dall’ultimo che rammenti.

E’ la malinconia della decadenza che dovrebbe riportarmi a galla vecchi  ricordi che però non ricordo più.

In questo periodo dell’anno in cui i mammiferi ed i rettiliani cadono in ipnotiche letargie, gli insetti e i saprofiti prendono vita, tramano nel terriccio umido e putrefatto e compiono il miracolo della transustanziazione della carne in terra.

Sono trascorsi due mesi esatti dalla mia resurrezione, ed io mi sento un Lazzaro mezzo morto che però si alza comunque a stento, si stira le membra  e deambula.

Dopo una passeggiata al mercato delle spezie imbevuto ed inebriato degli aromi dolciastri medio  orientali, mi fermo davanti ad un Doner  Kebab  ad osservare il curdo sciabolatore dissezionare quell’alveare  di carne di pecora. Più le  osservo quelle frattaglie, più ci rivedo  le mie interiora.

A quel pensiero mi passa l’appetito, pago e lascio la pecora con insalata e maionese al gatto del vicolo.

Mi cerco nelle tasche e trovo un santino sgualcito di Santa Rita: la Santa dei casi impossibili, un accendino bic scolorito, ed un biglietto piegato con su scritto “Bon Voyage”.

In ogni caso il fatto di sentirmi un essere vivo e respirante, come un  assorbente asciutto, supera la mia angoscia di obliarmi nell’indistinto indeterminato.

Non è proprio nei momenti in cui si sta veramente bene che ci si dimentica chi si è?

Sento le campane a festa, deve essere Domenica.

 La gente gira senza meta, siede ai tavoli dei bar per caffe’ tardivi o prematuri aperitivi.

 E’ un ottobrata calda che segna  una nuova primavera della mia vita.

Mi incammino verso la roulotte abbandonata all’interno di un camping dismesso e deserto già da un paio di mesi.

 I proprietari devono aver subaffittato questo vecchio rottame a terzi perchè probabilmente  non potevano permettersi un bungalow o un caravan con tutti gli extra comfort.

Ma questa per me è la comfort zone ideale, ai margini della merdopoli, con questo vento carico di i-odio salmastro che fa sbattere la porta malmessa della roulotte all’unisono col mio cuore, rinvigorito come una verga irrorata di candida fungina.

Nelle serate  terse mi sporgo dalla finestrella aperta  sotto la luce dell’ultimo sole e mi cucino una lisca di spigola o un trancio di tonno, rubato ai gabbiani ed ai cani randagi.

Col bisturi mi piace incidere i bulbi oculari, dissezionarli dalle orbite . Ho la mano ferma e precisa del chirurgo, anzi, azzardo: ho la fredda concentrazione di un medico legale.

La mano mi è rimasta sicura, nonostante i tremori essenziali dovuti al peggior alcool e al depatkin, un farmaco anticonvulsivante e stabilizzatore dell’umore.

Mi ritrovo a sentirmi un Dio pagano ma non so da dove e soprattutto come ricominciare.

Esiste qualche forma di vita per quelli come me? Qualcosa che vada oltre la mera sopravvivenza da clochard ai margini della notte?

Mi faccio un altro shampoo,  uno dei tanti, troppi della giornata. Se avessi un contratto luce-gas-acqua mi arriverebbe una bolletta da capogiro, neanche fossi una spa termale a 5 stars.

A volte durante la notte, non appena sento salire su dalle  lenzuola quel lezzo dolciastro di  rancida cadaverina corro nell’angusto box doccia, prendo a strofinarmi il corpo, fino a scorticarmi e riempirmi di piaghe come in un calvario dell’igiene: sanguinare per non marcire.

A questo punto gli affetti da doc (disturbo ossessivo compulsivo) sono dei miei pari: fratelli di disturbo.

Il calvario dell’igiene consta di 7 stazioni:

Prima stazione: mi insapono tutto il corpo, compresi i capelli sottili, col sapone di marsiglia

Seconda stazione: Risciacquo

Terza stazione:  mi cospargo di olio di semi per epurare eventuali parassiti

Quarta stazione:  Mi insapono di nuovo col sapone di marsiglia

Quinta stazione:  mi sbuffo borotalco ovunque soprattutto sulle zone  follicolari e sul derma atopico e  piagato

Sesta stazione: Mi spruzzo della Colonia

Settima Stazione:  Mi sdraio fragrante sul materasso imbottito  di  foglie di ginepro,  chiudo gli occhi e mi masturbo.

Domenica prossima sarà la più bella di tutti i festivi perché verrà una domestica, intorno alle 19. Gli era rimasto disponibile solo quell’orario. Non male eh?

L’ha chiamata il portiere, da quando mi ha minacciato di chiamare l’ Autorità Sanitaria Locale per il tanfo che proviene da sotto la mia porta impestando tutto l’androne, le scale, ascensore incluso.  Il concierge me la fa pesare come fosse una beneficienza etica, in realtà è la cresta sulla quota condominiale.

L’ho intravista la sguattera mentre lavava le vetrate al portone: E’ una dell’est sui venti anni, una miniatura di barbie che sono certo farà qualche lavoretto extra a quel maiale in doppio mento del portiere.

La Domenica è fatta per starsene a letto, leggere il giornale, farsi la barba col rasoio elettrico, per sentire l’odore di cucinato che sale e scende dall’androne, mimetizzando il fetore di guasto, marcio e scaduto che proviene dal mio corpo-appartamento.

Mi vergogno al pensiero di  aprirle la porta. Per l’occasione ho comprato una cinquantina di arbre magik e li ho sparsi un po’ ovunque nella casa, come gli addobbi di Natale:  Di sicuro quattro ne indosserò su di me, due da posizionare per ognuna delle  ascelle e due da infilare nei i boxer appesi alle palle, non si sa mai.

Speriamo venga presto Domenica: fibrillo al solo pensiero di scorgerla furtivamente prona a ramazzare sotto i letti.

 Mettendo in mostra quelle due melette sode e tondeggianti da spaccare per  sniffarne il nettare in mezzo e rubarne il profumo fresco anche se già sento quelle zaffate di di aglio e cipolla, marchio aspro dolce inconfondibile di ogni est-one.

Ed è un attimo che un quadro sulla parete spoglia e sgarrupata mi dispone ancorandosi alla risacca della melancolia: il dipinto di cargo slavi in rada nel Bosforo, pare di annusare quell’acre profumo di hashish ed essenze ignote di narghilè.

Il calendario della farmacia Kashmir segna Domenica.

 Mi sono ingarellato in uno shopping  compulsivo in quei negozi  multicolore, multi luce, multi essenze che alla fine somigliano più a bagni turchi che a grandi magazzini per l’igiene personale e degli ambienti.

 Ho arraffato bastoncini d’incenso dai  sapori più extraterrestri: uno stick alle pozze blu di Saturno, arbre magik alla manita muscaria che neanche  nel peggior coffee shop di Amsterdam avrei potuto raccattare, tante lavande, compresa quella gastrica.

 Sono scaduto dentro e fuori. Mi sento come una scatoletta per gatti lasciata al sole ed infestata di vermi.  Mi nutro per essere divorato.

Con la speranza di emanare una fragranza finalmente accettabile durante il pomeriggio mi rischio un cinemino d’essay parrocchiale dove avevo visto che in  programmazione davano “La folla” il capolavoro di King Vidor.

In fondo devo ingannare qualche ora prima che timbri la sguattera.

Pago il biglietto, compro una bustina di arachidi e mi immergo come un palombaro nella piccola sala umida ed angusta del cinema.

Sono l’unico spettatore pagante e non: in effetti, sono le 16.30 di un giorno festivo e a vedere un capolavoro del “muto” non ci vanno più neanche gli ubriachi, gli innamorati infrattoni ed i pazzi, ma solo i resuscitati come me.

Si spengono  le luci in sala, rumore di macchina da presa e fascio di luce.

A 21 anni John era uno dei sette milioni di abitanti convinti di essere i pilastri di New York” recita una delle didascalie del film.

Così d’emblee un tanfo pazzesco mi assale da ogni angolo della sala, mi annuso, ma è possibile?

 Non posso esser io…dopo tutti questi risciacqui ed ammorbidenti che neanche un faraone egizio prima della tumulazione.

Ma cristo…è rivoltante sta, puzza! E’uno schifo del creato!”

“Viene dallo schermo!” urlo nel vuoto, in direzione del bigliettatio/proiezionista.

Sbratto sulla poltrona davanti, mi turo il naso ma niente da fare, lo  schifo maleodorante e cadaverico invade tutta  la sala…come il Blob

E proprio in quel momento il fascio del proiettore illumina “la folla”, quell’insieme  brulicante ed indistinto di persone. Anonime ed indaffarate come gli insetti.

La folla: una covata di pus, una necrosi della  natura, una metastasi suppurativa dell’ordine delle cose che fete  più da  viva che da morta.

Allora con i grumi di vomito che mi penzolano dalla bocca, sono sopraffatto e sorpreso da un riso rumoroso ed isterico.

E quasi a strozzarmi, affogando tra i rimasugli di vomito e saliva prendo a urlare:

 Non sono io a  puzzare di simmenthal  scaduta! Siete voi…

Mi chiamo Jesus Salazaar e sono o forse ero, o meglio sarò di nuovo un anatomopatologo dell’Università di Medicina di Smirne.


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